Poiché hai compiuto gli anni, Benamata, e l’ala del tempo ha sfiorato i tuoi capelli neri, e i tuoi grandi occhi calmi hanno fissato per un momento l’imperscrutabile Nord…
Io vorrei darti, al di là dei baci e delle rose, tutto ciò che non è mai stato dato da un uomo alla sua Amata, io che tanto poco posso offrirti. Vorrei darti per esempio l’istante in cui sono nato, segnato dalla fatalità della tua venuta. Vedresti allora in me, nella trasparenza del mio petto, l’ombra della tua forma anteriore a te stessa.
Vorrei darti anche il mare dove ho nuotato da bambino, il tranquillo mare dell’isola dove mi perdevo, dove m’immergevo e da cui traevo la forma elementare di tutto ciò che esiste nello spazio in alto – stelle morte, meteoriti sommerse, il plàncton delle galassie, la placenta dell’Infinito.
E inoltre vorrei darti le mie folli corse inutili, di certo nella premonitoria ricerca delle tue braccia, e la volontà di aggredire tutto dall’alto, e travalicare tutto ciò che è proibito, e gli elastici salti danzanti per raggiungere foglie, uccelli, stelle – e te stessa, luminosa Lucina, che spargevi chiarore su di me bambino.
Ah, potessi io darti la mia prima paura e il mio primo coraggio nell’affrontarla, e il primo brivido che sentii nell’essere toccato lievemente dalla mano invisibile della Morte.
E cosa non darei per offrirti l’istante in cui, immobile e solo al mondo, mentre risuonava in preghiera il canto ecclesiastico della notte, ho visto la tua forma emergere dal mio fianco, e sforzarsi, immensa ondina archeggiante, per distaccarsi da me; e io ti ho partorito gridando, in mezzo allo scatenarsi di tempeste, rotto e immondo dalla polvere della terra.
Mi piacerebbe darti, Innamorata, quel mattino in cui, per la prima volta, le bianche molecole della carta di fronte a me si sono dilatate dinanzi al mistero della poesia improvvisamente materializzata; e dartela con tutto ciò che vi era di silenzioso e ineffabile – il deliquio delle stelle, il muto turbamento delle case, il mormorio mistico degli alberi che si toccano sotto la Luna.
E anche l’istante precedente la tua venuta, quando, mentre aspettavo che arrivassi, ti ho ricordata adolescente in quella stessa città in cui ti reincontravo anni dopo; e la certezza che ho avuto, nel guardarti, della fatalità notevole del nostro incontro, e che io ero in un solo colpo, perduto e salvo.
Vorrei darti soprattutto, Amata mia, l’istante della mia morte; e che esso fosse anche l’istante della tua morte, in modo che noi, per tanto tempo separati in vita, nel nostro decesso vivessimo una sola eternità; e che i nostri corpi fossero imbalsamati e sepolti assieme e al di sopra della terra; e che tutti coloro che si ameranno ancora potessero venire a vederci nel nostro ultimo letto; e che sulla nostra lapide comune giacesse la statua di un uomo che partorisce una donna dal suo fianco; e che ci fossero soltanto, come epitaffio, i versi di questa canzone che ti ho dedicato.
… dormi, che così
dormirai un giorno
nella mia poesia
di un sonno senza fine…
Vinicius De Moraes, Para viver um grande amor, in Per vivere un grande amore, Trad. di Amina Di Munno, Mondadori, Milano 1998.