03 giugno 2006

Digitale purpurea

I.

Siedono. L’una guarda l’altra. L’una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,

l’altra… I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch’ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti

più?» «Non più, cara.» «Io sí: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;

quei piccoli anni cosí dolci al cuore…»
L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi
quell ’orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? Quel segreto canto
misterïoso, con quel fiore, fior di …?»

«morte: sí cara». «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.

Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
l’anima d’un oblío dolce e crudele.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quelle della sua compagna;

e l’una e l’altra guardano lontano.


II.

Vedono. Sorge nell’azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d’incenso.

Vedono; e si profuma il lor pensiero
d’odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d’innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche…

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde piú rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate

oggi: ed oggi, piú alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d’un tratto (perchè mai?) piangete…

Piangono, un poco, nel tramonto d’oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell’orto, bianco qua e là di loro!

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l’alito ignoto spande di sua vita.


III.

«Maria!» «Rachele!» Un poco piú le mani
si premono. In quell’ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.

Memorie (l’una sa dell’altra al muto
premere) dolci, come è triste e pio
il lontanar d’un ultimo saluto!

«Maria!» «Rachele!» Questa piange. «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no; «Io, -

mormora, - sí: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d’un sogno che notturno arse e che s’era
all’alba, nell’ignara anima, spento.

Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!»

Giovanni Pascoli, Poemetti, a cura di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 1971.